lunedì 24 dicembre 2018

Il cammino delle Dodici Notti

Inizia oggi il percorso delle Dodici Notti, un cammino di conoscenza e rinascita che si sviluppa dall'interno all'esterno di noi stessi. Per arrivare a conoscerci (... o almeno provarci!) è necessario scendere nel profondo, nell'oscuro con cui la stagione fredda (col suo letargo) ci obbliga a venire a patti. Sarà poi attraverso questa nuova com-prensione che potremo vivere con maggiore consapevolezza e serenità il rapporto con l'Altro, con il Cosmo e con tutto ciò che ci circonda.
Si tratta di incontrarsi con l'Alfa e l'Omega, con Eros e Thanatos, col principio della Vita e con quello della Morte che, insieme, garantiscono la sopravvivenza - secondo le regole di Natura - del nostro Universo. Si tratta di morire per auto-rigenerarsi, attraverso un percorso iniziatico che prevede di affrontare tutte le forze e le zone oscure della nostra anima (le dodici tappe).

Immagine di Sulamith Wulfing
Non a caso, nel mondo germanico e anglosassone, la notte del 24 dicembre era chiamata Modraniht o Modra Nacht, ovvero la "Notte delle Madri", ed era dedicata al culto delle divinità femminili che, come ormai sappiamo, presiedevano tanto alla vita quanto alla morte.
Anche in area mediterranea, in particolare nella Grecia antica, nel periodo solstiziale si svolgeva ad Eleusi l'Αλῷα, un insieme di celebrazioni e sacrifici in onore di Demetra e di tutte le donne non più vergini (sposate e cortigiane). Demetra e Persefone sono le dee greche che compiono lo stesso percorso di Iside, di Inanna e di tante altre divinità femminili: scendono negli Inferi per risorgere a nuova vita, con nuove capacità prolifiche. (Secondo Marguerite Rigoglioso, nel suo volume Partenogenesi - Il culto della nascita divina nell'antica Grecia, la melagrana, di cui Persefone si nutre appena prima di tornare sulla terra, sarebbe simbolo della capacità di partenogenesi della dea...)
Il significato delle Dodici Notti è dunque quello della discesa-specchio, che ci condurrà ad una "morte" finalizzata al riaffermarsi della Vita.
Mi viene in mente, a tale proposito, anche il rituale buddhista del Chod, che più volte ho trovato menzionato nei libri che ho letto quest'anno (casualità?). Secondo il Chod, l'unica strada possibile per l'accettazione del nostro lato oscuro (e dunque per una vera crescita interiore) consisterebbe nello scendere a ri-conoscere i nostri demoni personali. Demetra George, nel suo I misteri della Luna oscura, ne propone un'interpretazione affascinante (che forse avevo già citato su queste pagine virtuali):
«Dobbiamo richiamare il nostro demone dal cortile dove l'abbiamo affamato [...]. Dobbiamo accoglierlo nel tepore della nostra cucina e nutrirlo con alimenti che guariranno le sue ferite, dovute al rifiuto».
La "lotta" che dobbiamo compiere durante le Dodici Notti (simboleggiata anche dai tanti rituali di "caccia selvaggia" sparsi qua e là nel folklore) non è un autoannientamento, una lacerazione fine a se stessa del nostro Io; bensì una battaglia dia-logica fra gli opposti e le diverse forze, destinata a chiudersi - sempre - col riaffermarsi della Vita e con la nostra apertura verso il mondo.

Eloisa Massola
(articolo pubblicato anche sul blog Sapevo danzare alla Luna)

domenica 9 settembre 2018

martedì 4 settembre 2018

Corso di filosofia e letteratura presso la Casa Circondariale di Vercelli

Dopo la bella esperienza di Letti di notte... anzi no, di pomeriggio! (una vera e propria "notte bianca" della lettura, a cui anche le persone detenute hanno potuto partecipare grazie all'iniziativa di Roberta Invernizzi e Alessandro Barbaglia), questa volta Paolo e io abbiamo portato in carcere la filosofia e la letteratura.
Le infaticabili Valeria Climaco, Antonietta Pisani e Mari De Pascale ci hanno infatti permesso di realizzare cinque incontri - svoltisi quest'estate tra il 24 luglio e il 4 settembre presso la sezione maschile della Casa Circondariale - in cui abbiamo parlato di Wittgenstein, Platone, Kant, Freud (sempre e rigorosamente in ordine non cronologico!) e letto poesie e brani di Mariangela Gualtieri, Wisława Szymborska, Alessandro D'Avenia, Sylvia Plath. Pensieri e parole di autori diversi per epoca, formazione e inclinazione, riuniti ad ogni lezione sotto un unico ampio tema (il linguaggio, il pensiero, l'amore e l'amicizia, l'inconscio...) e che si sono trasformati, incontro dopo incontro, in un'occasione di dialogo e confronto.
Calda, bella e consolante la partecipazione dei partecipanti, in particolare di quello "zoccolo duro" che ci ha seguito (nonostante il caldo afoso del mese di agosto!) imperterrito durante tutte le nostre divagazioni. Non dimenticheremo facilmente i loro volti, le loro storie e le risate a cuore aperto che ci hanno regalato - nella speranza di poterli reincontrare ancora sul nostro cammino. Magari in autunno, quando l'inizio della nuova stagione porterà con sé nuovi progetti - forse da realizzare ancora presso la Casa Circondariale...

Eloisa Massola

martedì 6 marzo 2018

L'importanza della fiaba (e della fiaba filosofica) sul TGR "Petrarca"

Nell'epoca di Internet, dei cellulari e della tecnologia presente in ogni momento della nostra vita, quanto è ancora importante leggere fiabe ai bambini?
Se ne è parlato nella puntata di Petrarca (TGR culturale) andata in onda su Rai Tre sabato 3 marzo scorso, alle 12.55, insieme a Raffaella Pretta, presidentessa dell'associazione La Quarta Parete, che ha ideato il progetto Nonno, mi leggi una fiaba?, un percorso di letture animate rivolto ai più piccoli. Un progetto che ha riscosso molto successo, raccogliendo candidature di nonni da numerose città italiane: Torino, Mestre, Napoli...
Si è discusso inoltre delle "fiabe filosofiche" insieme a Paolo Pulcina, autore, insieme a Roberta Invernizzi del libro Sette stanze d'alberi e d'acqua. «La fiaba filosofica» ci ricorda Paolo Pulcina «è un racconto dove si cerca di spiegare delle tematiche molto ostiche, che ci permetta di superare le difficoltà dell'esistenza».

E' possibile rivedere l'intera puntata di Petrarca su RaiPlay, al seguente indirizzo: https://www.raiplay.it/video/2018/02/TGR-Petrarca-00d85270-b3b4-4eb9-9bac-eaa98788a46b.html.

mercoledì 28 febbraio 2018

Umanità assortite

«Vi è mai capitato di guardare le comiche? E' uno spettacolo tremendo! Si ride solamente perché qualcuno si fa male: se cade, se riceve un pianoforte sulla testa, se gli crolla la casa... Se i poliziotti lo inseguono e magari lo riempiono di botte... Si RIDE per le DISGRAZIE altrui. E' terribile! Non trovate?»

Questo l'incipit dello spettacolo Umanità assortite, messo in scena domenica scorsa, 25 febbraio, dalla talentuosa compagnia costanzanese La Quarta Parete, con la regia di Max Bottino.
In effetti, le storie raccontate dai nove attori non sono a lieto fine né edificanti: «Poca bontà, nessuna barzelletta... Queste cose esistono. E non sono rare, lo sappiamo. Ma abbiamo scelto... sì, abbiamo scelto il peggio!». Dal racconto dello stupro di Franca Rame a Lo spazio bianco di Valeria Parrella, passando per Gli sdraiati di Michele Serra, i nove monologhi (recitati da Luisa Facelli, Concetto Burderi, Antonio Maria Porretti, Raffaella Pretta, Carmine Fra, Maria Raiteri, Max Bottino, Nadia Sgnaolin, Massimiliano Francese) raccontano un'umanità disastrata, sofferente, ferita - per la quale a poco servono perfino le "maschere" del teatro. Una madre che lotta per nutrire la propria neonata morente, una donna stuprata, un padre disarmato... e molti altri. Non vi è quasi rappresentazione, bensì testimonianza.
A seguire, nella seconda parte dello spettacolo, nel (vano!) tentativo di dare una risposta ai principali quesiti esistenziali emersi nel corso dei monologhi, interviene il filosofo Paolo Pulcina (co-autore della favola filosofica Sette stanze d'alberi e d'acqua, che da anni si occupa della filosofia insegnata ai bambini) che, con il consueto garbo e umorismo, stimola una divertita e coinvolta platea a riflettere su alcuni quesiti cruciali: chi siamo, realmente? Possiamo essere certi della realtà che ci circonda? E infine: che cos'è la "Verità" che molti di noi sembrano ricercare in questa esistenza?
Interrogativi che, è inutile precisarlo, sono destinati a restare senza risposta.

Eloisa Massola

domenica 25 febbraio 2018

Simone Berni, il più grande "cacciatore di libri" italiano

- Come ha cominciato l'avventura di cacciatore di libri? Cosa l'ha spinta?
Ho sempre avuto un’inclinazione naturale nel dare la caccia ai libri strani e particolari. Ero un “cacciatore di libri” molto prima di rendermene effettivamente conto. Ho però cominciato circa 16-17 anni fa e lo faccio sul serio da 10-12. Mi sono ispirato inizialmente a un booksearcher di New York, Michael Sober, al quale mi rivolgevo per trovare libri americani agli albori di Internet. Allora si lavorava col fax. Io gli mandavo le liste e lui, immancabilmente di notte, a causa del fuso orario, mi faceva avere le sue risposte. Era un bel momento quando mi scriveva che aveva trovato il libro che gli avevo commissionato in un paesino dell’Oregon o a Cabot Cove, nel Maine, magari a casa di Jessica Fletcher. Con gli anni mi è venuto naturale imitarlo un po’. Costruirmi la mia rete di librai, di venditori, che potevano farmi da supporto. L’idea non era nata come business – non lo è neppure adesso – ma solamente per “aiutare la gente a trovare libri”. Poi, con l’avvento della rete, è cambiato tutto. Le distanze si sono azzerate ed è nato il mercato globale.

- E' possibile far diventare questa passione un mestiere?
Sì, è possibile ma nel mio caso pure estremamente difficile. Io mi occupo quasi esclusivamente di “edizioni povere”, libri del ‘900 e degli anni 2000, che non hanno grosse valutazioni di mercato. Non rincorro Aldine o cinquecentine da centomila euro, non è il mio campo. Ho un lavoro esattamente come tutti quanti, che non ha nulla a che vedere coi libri. Mi metto però il costume da supereroe ad ogni “chiamata”, e così mi trasformo per partire per le mie ricerche, e mi butto in viaggi anche strampalati quando vado a inseguire un’idea, un’intuizione. In quei momenti, magici, io sono veramente me stesso e riesco a trovare libri rari al mercatino della frutta di Karaganda, in Kazakistan, come alla bancarella di libri di seconda mano alla Festa della Lega Nord di Chieri. Entrambe le circostanze rispondenti al vero. Prime edizioni di Gianni Rodari nel primo caso e un Pinocchio fascista piuttosto raro nel secondo.

Il "cacciatore di libri" Simone Berni.
Quale è stata la sua "conquista" più difficile? Di quale va più orgoglioso?
Domanda che mi fanno tutti, scusate la franchezza! Rispondo citando sempre un libro diverso, come faceva Umberto Eco. E stavolta tocca a Vita da uomo, di J. D. Salinger (Gherardo Casini Editore, 1952), ossia la prima vera edizione de Il giovane Holden. Trovato per 10 euro su Internet; copia in condizioni perfette, mai aperto.

- E' dispendioso creare una collezione di libri introvabili? E' un investimento o un "vizio a perdere"?
Enrico, il mio agente romano che ogni domenica mi manda un resoconto sui libri interessanti presenti al mercatino di Porta Portese, e che io immancabilmente pubblico sul mio sito www.cacciatoredilibri.com, è l’esempio vivente di come, attraverso la perseveranza, la costanza e la diplomazia, sia possibile trovare un gran numero di libri rari, altrimenti costosi e irraggiungibili; e trovarli a prezzi modici, talvolta praticamente gratis. Per riuscirci bisogna “stare sul pezzo”, muoversi tra le bancarelle, arrivare presto la mattina, frequentare i venditori giusti, farseli amici, stare sempre con gli occhi bene aperti. L’occasione arriva. Va saputa cogliere. Con questi criteri si parla di investimento. Se si comprano libri rari e introvabili a cento euro l’uno, è chiaramente un vizio a perdere.

- Cosa cerca nei libri introvabili?
L’ebrezza di poter dire: «Ecco, io ce l’ho!». Ma più spesso cerco un senso di appagamento, che però non arriva mai, e quando c’è dura un secondo appena. Perché subito l’attenzione viene catturata da un nuovo libro, da una nuova delicata preda su cui scatenare la prossima caccia.

- Quale potrebbe essere il suo reperimento più leggendario, ancora da compiere?
Non risponderei a questa domanda neanche sotto tortura, è un po’ come mettere il vostro cappello e io non voglio farlo. A Palermo si prevede una battaglia! (In questa risposta sono contenuti indizi sparpagliati sulla mia prossima caccia!!)

Per ulteriori informazioni su Simone Berni, si veda il sito www.cacciatoredilibri.com.

Intervista realizzata da Paolo Pulcina





martedì 13 febbraio 2018

«I nemici di un popolo sono coloro che lo tengono nell’ignoranza»

Un ricordo di Thomas Sankara

Era il 15 ottobre 1987 quando Thomas Sankara, conosciuto prosaicamente come il Che Guevara africano, venne assassinato durante una lezione sportiva pomeridiana, dai suoi stessi comagni di rivoluzione.
Il giovane capitano diventò presidente del Burkina Faso (allora Alto Volta), la “terra degli uomini integri”, il 4 agosto 1983 con un colpo di stato e da quel momento mise in atto una vera e propria ristrutturazione rivoluzionaria nel suo Paese: nazionalizzò le terre e le distribuì ai contadini, statalizzò le ricchezze minerarie, avviò campagne di alfabetizzazione e vaccinazione, si scontrò con gli organismi finanziari internazionali, promuovendo di non pagare il debito estero, promise l’autosufficienza per evitare di vivere dell'aiuto esterno e stimolò, così come nessuno ha mai fatto in Africa, i diritti della donna.

Ma, al di là del mito, chi era Thomas Sankara in realtà? Chi lo ha conosciuto bene e ha condiviso con lui le stesse speranze e gli stessi timori, ha raccontato del Sankara più umano a distanza di anni dopo la sua morte. Marie-Angélique Savané spiega che Sankara «aveva un carisma straordinario, era pieno di forza e di energia. Quando entrava in una stanza era impossibile non ammirarlo e stare a vedere che cosa avrebbe detto».
Profondissima la sua ammirazione che ancora oggi nutre per il presidente. Nel 1983, anno del suo arrivo al potere, questa donna senegalese lavorava alle Nazioni Unite e presiedeva la prima associazione femminista del Senegal. Racconta di essere sempre stata contraria ai colpi di stato, pensando che non fossero il metodo adeguato per l’ascesa al governo. Ma in quegli anni, in Africa, non c’era traccia di libertà di espressione, né di alternanza, né di una vera democrazia. E Thomas Sankara arrivò con le migliori idee progressiste, con il suo discorso vicino al popolo, perchè non era il classico militare. In molti, come Savané, hanno fatto il possibile per conoscerlo, per ascoltarlo. Poco dopo il golpe, Marie-Angélique era in missione in Burkina Faso e chiese un’audizione con il presidente.  La funzionaria racconta che fu uno scambio fraterno, che venne colpita dalla sua gioventù (Sankara aveva solo 33 anni, due anni meno di lei). Era un capitano dell’esercito diplomato all’accademia nazionale ed aveva perfezionato la sua formazione all’estero e, beninteso, aveva perciò la sua maniera autorevole di dire le cose: con lei si mostrò sempre estremamente aperto e attento. Ricorda anche che le disse di conoscere molto bene l'esercito, ma che non era economista, né sociologo, né politologo e che, pertanto, voleva attorniarsi di gente ben preparata per trarre il Burkina Faso fuori della miseria.
Sankara tagliò drasticamente la spesa pubblica (o, meglio, lo sperpero di denaro pubblico), combattè ferocemente la corruzione, girava senza scorta e senza autista su una utilitaria Renault, spesso in bicicletta andava a conoscere direttamente la vita delle persone più disagiate del Paese.

L'ossessione di Sankara, oltre che il principale obiettivo di ogni rivoluzione benevolente, era quello di migliorare le condizioni di vita del suo popolo. Che la gente potesse nutrirsi correttamente, vivere degnamente, accedere all'istruzione, esprimersi liberamente era lo scopo del suo lavoro quotidiano. Diede una svolta radicale all’economia della Nazione Burkinabé, concentrando tutti i suoi sforzi per lo sviluppo dell’agricoltura e dell’allevamento, creando centinaia di mini-dighe, promuovendo e proteggendo la produzione locale di fronte ai prodotti importati che affliggevano la già misera economia nazionale. Respinse qualsiasi aiuto internazionale che assomigliasse a un’elemosina ed era d’accordo solamente nel gestire sostegni che contribuissero a facilitare gli obiettivi che il suo governo si era prefissato, con grande soddsfazione di molte Ong che vedevano in tale atteggiamento un modello di gestione dell’assistenza estera.

Come riportato anche da Wikipedia, in 4 anni 2 mesi di amministrazione, il governo Sankara fece quanto segue: vaccinati 2.500.000 bambini contro morbillo, febbre gialla, rosolia e tifo (l’Unicef stesso si complimentò), creati presidi di salute primaria in tutti i villaggi del Paese, aumentato il tasso di alfabetizzazione, realizzati 258 bacini d'acqua, scavati 1.000 pozzi e avviate 302 trivellazioni, realizzate 334 scuole, 284 dispensari-maternità, 78 farmacie, 25 magazzini di alimentazione e 3.000 alloggi, avviati programmi di trasporto pubblico (autobus), combattuti il taglio abusivo degli alberi, gli incendi del sottobosco e la divagazione degli animali, costruiti campi sportivi in quasi tutti i 7.000 villaggi del Burkina Faso, soppressa la capitazione e abbassate le tasse scolastiche da 10.000 a 4.000 franchi per la scuola primaria e da 85.000 a 45.000 per quella secondaria.
Quasi tutte queste riforme, estremamente innovative per un paese africano degli anni Ottanta, furono annullate dal susseguente regime di Blaise Compaoré.
Quest’ultimo era il vice di Sankara ai tempi della “rivoluzione del 4 agosto”, ma preferì adeguarsi al costume della corruzione, dopo che il presidente si inimicò Francia, Inghilterra ed Usa a causa della sua volontà di non restituire i soldi del debito, contratto dai precedenti politici corrotti dell’Alto Volta. Sankara è un esempio di virtù umana ineccepibile tanto che il manipolo di profittatori interno, affiliato al suo stesso governo e capeggiato dal “fratello Compaorè”, lo condannò a morte.
Ancora oggi vigono molte incertezze su cosa accadde davvero a Sankara e ai 12 collaboratori-ufficiali uccisi nell’attentato. È molto significativo, però, che Compaorè tentò di ostacolare ogni indagine sull’assassinio del presidente, rimanendo in carica come dittatore per oltre 20 anni, con l’appoggio delle  “famose democrazie occidentali”.

«Mentre i rivoluzionari in quanto individui possono essere uccisi,
nessuno può mai uccidere le idee» - T. Sankara.

Paolo Pulcina

mercoledì 31 gennaio 2018

Filosofia coi bambini: unico modo per recuperare una società libera, autonoma, autocritica

L’idea di progettare e programmare lezioni di filosofia per bambini compare negli Stati Uniti alla fine degli anni Sessanta e parte dalla constatazione che non è possibile garantire una società veramente libera e solidale se non si riuscirà a generare persone capaci di pensare per se stesse, nel quadro di un processo solidale e cooperativo di discussione. L’ispiratore, iniziatore e principale autore di questo progetto socioculturale è stato Matthew Lipman, ex professore all'Università di Montclair (New Jersey), scomparso nel 2010. Nella città statunitense si creò l’Istituto per lo sviluppo della filosofia per bambini (IPCA) come ente istituzionale per lo sviluppo del curriculum, i lavori di ricerca pedagogica e la formazione degli insegnanti.
Grazie all'IPCA, “filosofia per bambini” è oggi il nome di un vasto progetto educativo che si è andato introducendo un po’ in tutto il mondo. L’Italia, che pur vive validi tentativi in merito, è ovviamente rimasta al palo, dalla prospettiva ministeriale ed istituzionale. In Italia, sono i singoli, individui o piccoli gruppi, a tentare di animare l’idea di regalare il pensiero filosofico ai bambini delle scuole elementari: i Ministri che si sono succeduti, almeno negli ultimi 25 anni, hanno sempre completamente ignorato la possibilità di rendere la filosofia un insegnamento istituzionalizzato, preoccupandosi, al contrario, di smantellare la “madre di ogni sapere” anche dagli istituti superiori dove oggi è ancora insegnata.

Un altro grande attore internazionale della filosofia per i bambini è José María Calvo, che implementò i principi e i fondamenti della filosofia per bambini nei suoi corsi di liceo in Spagna. Il professore propizia un concetto di nuova istruzione basata su principi democratici ed esprime l'idea, diffusa fra i pensatori esistenzialisti, che l'essere umano è un progetto che “si fa”, si realizza, si produce, sia a livello personale che sociale.
Ora, per Calvo (come per numerosi altri pensatori), questo “farsi” si attua attraverso l’istruzione che, in questo modo, acquista un significato vitale, esistenziale. Per compiere la sua missione, essa deve avere caratteristiche democratiche e tolleranti, per poter così adeguarsi alle esigenze umane del momento. L’autore riprende l’idea che l’istruzione sia una prassi, un’arte (pedagogia come arte dell’educazione) che si impara solo studiando i comportamenti all’interno delle aule, senza trascurare naturalmente gli apporti teorici che gli esperti possono apportare.

L’aspirazione di coloro che si dedicano all’insegnamento della filosofia ai bambini è di “insegnare a pensare”: non importa che tu conosca vita e opere di un filosofo, il suo pensiero approfondito sin nei suoi meandri, ma è importante che i bambini sappiano che “si può parlare persino di cose così strane come i ragionamenti e le interpretazioni, e che ognuno può commentarle e stravolgerle, se possiede altri ragionamenti da proporre”.

Filosofia alle elementari: immagine tratta dal sito de
"La Repubblica - Milano"
Attraverso la filosofia si deve offrire all’alunno la possibilità di acquistare le strategie, le procedure e gli atteggiamenti propri del pensare filosofico: il dialogo, l’argomentazione e l’atteggiamento critico serviranno allora affinché gli studenti imparino a pensare autonomamente.
Il professor Calvo concorda con i seguaci di questo sistema: i bambini hanno l’obiettivo di raggiungere l’acquisizione di un pensiero critico e creativo, di formarsi nella società della libertà di espressione (la parresìa).
Calvo concorda anche e soprattutto con la teoria per cui lo studente è il protagonista del suo apprendimento: è lui stesso a sviluppare un apprendimento significativo nella misura in cui scopre il significato di ciò che impara. In contrapposizione a quanto sostenuto e realizzato dalla Pubblica Istruzione, per cui il contenuto didattico è ben più cogente rispetto al significato di ciò che sto studiando, rendendo così l’insegnamento e il docente come “esperti” da imporre, il modello del programma “filosofia per bambini” si propone di recuperare il ruolo attivo dello studente come costruttore delle proprie conoscenze. Questa costruzione è possibile solo attraverso il dialogo con gli altri (Socrate e Platone saranno serviti a qualcosa, no?), donde l'importanza di favorire nell’aula la instaurazione di una comunità di ricerca: uno dei princìpi fondamentali del programma è il concetto che si impara solo e meglio in comunità (come postulato, fra altri, da John Dewey).
Questi concetti sono in linea con una visione della conoscenza che supera la tradizionale concezione speculare della stessa come riflesso della realtà, e la concepisce come una perpetua costruzione sociale, sempre in evoluzione (pragmatismo contro dogmatismo), fissando il traguardo ideale di una conoscenza capace di manifestarsi in un’applicazione pratica. Teoria e prassi si corroborano per un fine splendido: migliorare la qualità della vita sociale ed individuale dell’umanità. Progetto ambizioso, si dirà, ma è oggi reputato utopia soltanto perché non si vuole renderlo reale: è molto più comodo diseducarsi e viziarsi che educarsi e farsi virtuosi. E i risultati sono palesemente evidenti, banali, oramai… Se lo studente è il centro e il soggetto dell’istruzione, è indispensabile che la filosofia si offra all’alunno in modo tale che si riconosca vitale e necessaria. Per portare a termine un modello educativo come quello del programma IPCA, sono necessarie determinate condizioni: l’adozione di un modello attivo di istruzione, una preparazione adeguata dei docenti, la creazione di una comunità di ricerca e l’impiego di materiale significativo e fruibile per gli studenti. È imprescindibile anche il superamento di un concetto tribale di istruzione, vale a dire quel che la considera come una semplice trasmissione culturale da parte degli adulti, riservando agli allievi un atteggiamento passivo. In questo clima democratico, lo studente può prepararsi per la sua futura vita attiva nella società, perché sarà sviluppato il pensiero autonomo, critico e creativo, aperto al dialogo e alla tolleranza. In base al principio secondo cui “la filosofia non si impara, ma si vive o si fa”, nel programma di filosofia per bambini non si impara ciò che i filosofi hanno detto, ma si fa ciò che essi stessi hanno fatto: la classe non si limita ad apprendere filosofia, ma in essa, innanzi tutto, si fa filosofia.

Secondo Calvo (e lo possiamo davvero condividere appieno) le differenze fra l’educazione tradizionale-istituzionale e il nuovo concetto educativo risiedono in questi punti:

Educazione tradizionale:
- importante non è la persona che apprende;
- importante sono le materie ed il docente nel ruolo di esperto;
- lo studente continua ad essere un “mezzo” e non un “fine”; la finalità è, invece, approvare il metodo, ottenere i risultati, diplomarsi e laurearsi;
- più che apprendimento si tratta di insegnamento e studio.

Educazione innovativa:
- lo studente è il protagonista del suo apprendimento;
- il solo vero elemento importante è la persona che apprende;
- le materie curricolari devono essere “a servizio” dello studente;
- l’apprendimento significativo sarà determinato dallo studente medesimo;
- il “significato” non può essere insegnato, bensì ogni essere umano deve scoprirlo per proprio conto.

Il nuovo concetto di istruzione ha bisogno di una nuova struttura curricolare che assicuri a sua volta una istruzione significativa che tenda a sviluppare nelle persone menti riflessive e critiche. Josè Calvo ritiene che la filosofia per bambini costituisca un elemento fondamentale nella riforma educativa del suo Paese ed elenca i vantaggi che comporta quel progetto: in primo luogo sottolinea l’importanza del pluralismo e la presentazione della filosofia attraverso racconti che facilitano la scoperta della realtà da parte di bambini e adolescenti. Un’altra delle benedizioni ponderate del programma è che gli studenti si abituino a pensare da se stessi sui temi importanti della vita, a prendere coscienza delle responsabilità come esseri umani.
Il nostro obiettivo: elaborare una pedagogia che insegni ad apprendere, ad apprendere per tutta la vita dalla vita stessa” (Rudolf Steiner).

Paolo Pulcina